di Clara Capelli
Un acceso dibattito si è scatenato sui social media nella giornata di sabato 6 marzo, a seguito della notizia che il Ministero delle Finanze (MEF) italiano avesse contrattato la società di consulenza McKinsey per completare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) da presentare all’Unione europea entro il 30 aprile nel quadro del Recovery Fund – Next Generation EU.
McKinsey, fra le più grandi e potenti società del settore, ha infatti parecchi scheletri nell’armadio, da rapporti con autocrati e politici di opaca reputazione a consulenze dalla “discutibile efficacia”, per usare un eufemismo. McKinsey si basa notoriamente su expertise marcatamente orientata all’efficienza di mercato, secondo la quale le questioni occupazionali e sociali sono da intendersi come secondarie e strumentali alla performance dell’impresa privata. La possibilità ventilata da radio e giornali che una task force su commissione mettesse mano a linee programmatiche e pipeline di progetti del Recovery Plan/PNRR ha contrapposto in brevissimo tempo le posizioni.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, il MEF ha replicato con un comunicato stampa, precisando che “l’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri Paesi dell’Unione europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. Nello stesso comunicato, il MEF ha assicurato che “Gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia”. Infine, si è indicato che il contratto ammonta a 25.000 euro + IVA, valore che per il Codice degli Appalti italiano consente l’assegnazione diretta a un prestatore di servizi, senza dover ricorrere a bando di gara, previa “adeguata motivazione”. Le informazioni sul contratto saranno rese pubbliche secondo la normativa sulla trasparenza.
Le società di consulenza come Accenture, McKinsey, Mercer, Boston Consulting Group – oppure le cosiddette Big Four (Deloitte, E&Y, KPM, PcW), ossia società di audit, ma progressivamente spostatesi verso il business della consulenza – sono sempre più ricorrentemente coinvolte dal settore pubblico nel quadro di progetti, strategie, piani di sviluppo, etc.
Il Regno Unito è un noto caso di sistematico ricorso alle società di consulenza (in particolare dopo il 2016 con il voto sulla Brexit), ma anche la Francia di Macron si sta progressivamente orientando verso un modello di ricorrente e agevole contrattazione di consulenze per mansioni che potrebbero essere svolte dalla pubblica amministrazione, come sta avvenendo col piano vaccinale affidato proprio a McKinsey, per altro con risultati al momento non troppo soddisfacenti. L’Unione europea stessa spende decine di milioni di euro per consulenze esterne, soprattutto in ambito di studi e valutazioni, anche in questo caso non sempre di qualità eccelsa.
Il mondo dello sviluppo è legato a doppio filo al sistema delle consulenze, fatto non solo di grandi società internazionali, ma anche di medio-piccoli cabinet e consulenti indipendenti, che si occupano di studi di fattibilità, rapporti e strategie di sviluppo, bozze di leggi e decreti e proposte di riforma, etc.
Le ragioni dietro a questo aggrovigliarsi di attori, non scevro da zone grigie, sono molteplici. Le pratiche di progettazione richiedono conoscenze e competenze tecniche specifiche non sempre disponibili all’interno della pubblica amministrazione nazionale. Per non parlare del cosiddetto “linguaggio manageriale”, fatto di analisi di impatto e costi-benefici, risultati attesi, indicatori, cross-cutting issues, risorse da streamline, value for money, etc. etc.
Talvolta ci si rivolge a queste competenze esterne perché appunto molto specifiche, spesso perché la loro assenza è il risultato di mancati investimenti in formazione e assunzioni, cosa che rende appunto necessaria l’esternalizzazione del servizio. In diverse circostanze, si contrattano le società di consulenza sulla base dell’ipotesi che ciò consenta di “fare in fretta” e, possibilmente, meglio.
Ricorrere a consulenze permette inoltre di accedere a una sorta di “servizi boutique”. Molte società sono in grado di contrattare in tempi relativamente rapidi squadre di esperti ed esperte indipendenti con profili molto puntuali, almeno sul CV, rispetto alle richieste del cliente. Ciò non significa che tali profili siano indispensabili alla buona riuscita dell’iniziativa o del progetto, ma la selezione à la carte tramite società di consulenza risulta più agevole di un piano di regolare aggiornamento della funzione pubblica o del relazionarsi con le catene decisionali dell’amministrazione.
Infine, la consulenza esterna – specialmente se fornita da grandi società internazionali – gode di un pregiudizio favorevole: è considerata come un servizio prestigioso, fornito da individui dai percorsi scolastici e lavorativi di alto livello. Una sorta di marchio di qualità che giustifica la spesa e valida la bontà del risultato finale. Anche quando quello stesso lavoro avrebbe potuto essere svolto da risorse interne.
Sovente le società di consulenza sono una sorta di Agilulfo, il cavaliere inesistente di Italo Calvino: lucide armature vuote tenute insieme dalla forza di volontà e dalla reputazione.
Non è questa la sede per soffermarsi sulle malefatte delle società di consulenza o sull’intreccio di rapporti tra ruoli pubblici e privati in dinamiche revolving doors, con politici, alti funzionari, CEO che diventano consulenti, oppure consulenti che finiscono a ricoprire ruoli nella funzione pubblica. Le armature scintillanti si possono smontare anche senza indagare nel torbido.
In moltissimi casi non è possibile provare che l’esternalizzazione a consulenze esterne sia effettivamente una modalità indispensabile, migliore o più innovativa rispetto al servizio che sarebbe stato reso da funzionari e funzionarie nazionali. Al netto dell’aura di modernità ed efficienza creata dal lessico manageriale, cosa comunque acquisibile in maniera relativamente facile, quali valutazioni fatte sull’operato delle società di consulenza ne giustifica la reputazione e la sistematica contrattazione per le mansioni più disparate?
L’unico strumento in tale senso può forse essere la ricchissima aneddotica di chi col mondo delle consulenze ci ha avuto a che fare. Aneddotica che restituisce un quadro molto meno affascinante di quanto i brand delle consulenze esterne raccontino.
Si tende a trascurare che la competenza “esterna”, magari molto specifica, manca spesso delle necessarie conoscenze di contesto per realizzare un servizio che sia facilmente integrabile nel flusso di lavoro delle istituzioni interessate. In parziale collegamento a ciò, occorre inoltre sottolineare che molto lavoro di consulenza avviene “in serie” e tende a replicare pratiche e modelli, anziché apportare soluzioni e suggerimenti innovativi. Chi ha voglia di fare qualche esercizio comparativo, noterà un livello di omogeneità generalmente elevato, specialmente nel caso dei piani di sviluppo.
Senza per forza muoversi in un terreno ideologico di sinistra, le critiche a queste pratiche sono svariate e chi in questi giorni ha dileggiato l’indignazione – “perché si fa ovunque così” e “almeno le cose sono fatte bene” – dovrebbe invece fare la grazia di motivare con pazienza queste affermazioni e giustificare per risultati, impatti e value for money perché le società di consulenza possano fare tutto meglio della pubblica amministrazione nazionale. Indipendentemente dal singolo episodio italiano, sarebbe finalmente l’occasione per intavolare un discorso serio sull’argomento.
Giudizi molto puntuali e di merito sono stati mossi per esempio da un articolo di The Atlantic che ha assai bene argomentato la questione della tecnocrazia manageriale e di una logica gestionale finanziarizzata, che non solo ha contribuito a smantellare pezzi di tessuto produttivo, ma ha anche verticalizzato e accentrato la gestione societaria nelle mani di CEO le cui scelte possono avere ripercussioni fortissime sulle vite di migliaia di persone. Considerazioni analoghe sono fatte dall’Economist in un articolo molto critico di appena pochi giorni fa, il quale non lesina critiche sulle millantate competenze extra terrene delle società di consulenza.
Poco più di un anno fa, Economist aveva avuto commenti piuttosto duri anche sul mito CEO degli ultimi decenni: in un mondo in cui tutti vogliono fare i e le manager, chi si occupa dei checks and balances per il controllo del loro operato, chi può assicurare con certezza che sappiano sempre fare la scelta giusta – quasi fossero delle divinità moderne -, chi è in grado di farli e farle rispondere per le loro decisioni sbagliate quando società e fabbriche si trovano in ginocchio per una gestione incauta o scellerata e non necessariamente per dinamiche di mercato?
Se è consentita una divagazione, altro fondamentale punto di discussione del dibattito che non c’è riguarda la gestione della cosa pubblica con criteri manageriali da azienda. Non solo perché pubblico e privato rispondono a logiche differenti, ma anche perché occorrerebbe anche riflettere se davvero le pratiche manageriali contemporanee rappresentino un modello di efficienza con potenziale di sviluppo duraturo, solido e inclusivo.
Cosa c’entra tutto ciò con l’Italia, il Recovery Plan e i 25mila euro di contratto a McKinsey?
Next Generation EU ha portato a galla numerose criticità e debolezze del nostro Paese, in particolare per quanto riguarda la generale debolezza di capacità di pianificazione strategica del futuro. L’Italia, a livello pubblico (ma moltissimo si potrebbe scrivere anche sul privato), è un Paese che non investe. Siamo tradizionalmente uno dei Paesi UE che meno fa ricorso ai fondi europei disponibili.
Dall’altra parte, fare programmazione e progettazione è un lavoro complesso, che richiede tempo, risorse umane e lunghe consultazioni con i vari attori interessati. La tentazione alla semplificazione e all’accentramento è sempre presente in modo strisciante – lo abbiamo già visto con il precedente governo – e la scadenza del 30 aprile per la presentazione del PNRR si avvicina inesorabilmente.
È indubbio che i tempi a disposizione del governo Draghi siano molto stretti. Per questa ragione, anche sulla base delle affermazioni del Presidente del Consiglio nel suo discorso al Senato del 17 febbraio, è ragionevole ipotizzare che almeno sulla componente di progetto non verranno apportate modifiche radicali e sostanziali rispetto all’ultima versione del PNRR.
Tale componente va tuttavia completata e rifinita nei suoi dettagli tecnici. Il ruolo di McKinsey potrebbe essere quello di accompagnare queste operazioni, come parrebbe suggerire la poco chiara espressione “supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano” del comunicato stampa del MEF.
Non tanto quello della comparazione fra piani nazionali (posto che dovrebbe quanto meno sorprendere che all’interno del MEF non vi siano risorse competenti e disponibili per un lavoro non particolarmente complicato in sé), ma un generico intervento di assistenza per ultimare e consolidare le varie parti del PNRR nei due mesi che rimangono. La portata e l’articolazione di questo intervento di supporto non sono per ora determinabili. Non essendo al momento possibile avere una descrizione di cosa tale “supporto tecnico-operativo di project management” implichi precisamente, si rimane in attesa della pubblicazione dei dettagli del contratto per comprendere quale sia l’effettiva giustificazione che ha richiesto la mobilitazione di risorse esterne.
Sarebbe inoltre importante capire se il valore del contratto sia commisurato ai terms of reference (ossia le mansioni da svolgere, quindi la realizzazione di uno studio e la fornitura di supporto tecnico fino a consegna del PNRR), oppure se volto per ragioni di tempistiche a rimanere sotto la soglia dei 40.000 euro, fissata dal Codice degli Appalti per l’assegnazione diretta.
Molte delle polemiche hanno infatti riguardato il valore di contratto relativamente basso per le funzioni richieste rispetto alle tariffe in circolazione, cosa che alcuni hanno ritenuto strumentale per McKinsey al fine di guadagnarsi una posizione di vantaggio per futuri bandi di gara contestuali al Recovery Plan. Si tratta di una pratica non del tutto infrequente nell’ambito delle consulenze, resa a volte possibile dall’esistenza di quelle zone grigie cui si è rapidamente accennato poco sopra. Reuters ha riportato che McKinsey sarebbe stata addirittura disponibile a lavorare pro bono, il che andrebbe a confermare i timori di un interesse sui bandi futuri. Si auspica fiduciosamente che il contratto con McKinsey preveda comunque le consuete norme di confidenzialità preposte a evitare situazioni di questo tipo e a proteggere eventuali informazioni sensibili.
Mantenendo un occhio attento alla questione, di questa vicenda rimane un punto fermo. L’Italia ha sperperato nei decenni molta della sua capacità programmatica e, se si vuole, di immaginazione del futuro. Non solo a livello di classe politica (e pure imprenditoriale, però questo è un altro discorso), ma anche di funzione pubblica. L’increscioso e imbarazzante spettacolo cui abbiamo assistito rispetto al Recovery Plan ne è l’ennesima prova.
Indipendentemente dal grado di coinvolgimento di McKinsey in questo esercizio, è opportuno che cittadini e cittadine abbiano l’occasione per interrogarsi e informarsi sul fatto che compiti – secondo gli elementi disponibili – di compilazione e consolidamento debbano essere esternalizzati, sulla base di quali giustificazioni, quali tempistiche, quali standard di qualità. Per non parlare della questione di “monitoraggio dei diversi filoni di lavoro”, una funzione di raccordo e coordinamento che raramente funziona bene se affidata a soggetti esterni alle istituzioni, senza scendere in discorsi più articolati di governance.
Del rumore di questi giorni, portiamoci a casa la convinzione che la pubblica amministrazione italiana debba essere innanzitutto coinvolta in modo organico e fatta oggetto di investimenti e aggiornamento, perché compensarne le mancanze con task force e consulenze esterne non sana alcuna criticità, né consente il perseguimento dell’obiettivo più importante: la costruzione di un futuro per tutti e tutte.
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