Percorso di convergenza dei movimenti e delle realtà sociali italiane
Care e cari,
Diamo il benvenuto al Manifesto “Uscire dall’economia del profitto, costruire la società della cura”, esito di un intenso percorso di convergenza tra tanti movimenti e numerose realtà sociali di tutta Italia, che hanno raccolto l’invito, inviato il 5 giugno scorso da ATTAC Italia con una “lettera aperta a tutti” (allegata), a soggetti, realtà e Reti di Movimenti, sotto l’indicazione «Sappiamo il cosa e il perché, vorremmo discutere il come».
Invitiamo caldamente a aderire, a partecipare con le proprie idee, proposte, a fare insieme un percorso sempre più allargato e condiviso.
Invitiamo a convergere a un testo comune cui hanno partecipato attivisti e attiviste delle tante realtà, qui sotto citate.
Qui di seguito “Mai più come prima! Insieme per la società della cura” l’invito ad aderire, a partecipare, a firmare.
Sotto il Manifesto “Uscire dall’economia del profitto, costruire la società della cura” –
Reti di Pace, in completa sintonia con i valori espressi nel Manifesto, aderisce.
Mai più come prima!
Insieme per la società della cura
Aderisci e partecipa alla convergenza dei movimenti e delle realtà sociali italiane: un Manifesto comune, una piattaforma di priorità concrete nella crisi, una manifestazione nazionale in autunno, un percorso permanente da fare insieme.
Porta le tue idee, le tue proposte, le tue lotte, le tue alternative. Firma il Manifesto: societadellacura@gmail.com
Niente può essere più come prima, perché è stato proprio il prima a causare il disastro – il collasso ecologico e climatico, la gigantesca ingiustizia sociale, la precarizzazione della vita e delle relazioni. Nessuno si salva da solo. Insieme dimostriamo che è possibile uscire dall’economia del profitto per costruire la società della cura di sé, dell’altr*, del pianeta.
Il Manifesto è il risultato di un percorso a cui hanno partecipato attivisti ed attiviste di: Arci, Arcs, Aoi, Ari, Attac Italia, Associazione Laudato Sì, Associazione Botteghe del Mondo, AlterPiana FI-PO-PT, AlterAzione Climatica Pesaro, Associazione Maschile Plurale, Associazione nazionale per la Decrescita, Associazione Sprar Siproimi Mugello, Associazione per il Rinnovamento della Sinistra, Associazione Rimuovendo gli ostacoli, Autoconvocat* contro la crisi, Campagna Dico32, Cantiere delle idee, Casa internazionale delle donne, Casa delle donne di Milano, Catdm Italia, Cemea, Cittadinanza sostenibile bergamasca, Cobas Lavoro privato, Comitato Acqua Pubblica Milano, Comitato Difesa Sanità Pubblica Milano Città Metropolitana Sud Ovest, Comune Info, Coordinamento nazionale per il diritto alla salute, Comitato nazionale contro ogni autonomia differenziata, Controsservatorio Val Susa, Coordinamento ligure Gestione Corretta Rifiuti, Campagna per il Clima Fuori dal fossile, Communia, Cultura è libertà, Demosfera, Dialogo Globale, Disarmisti esigenti, Distretto di mutuo soccorso LO-PC-RE-MI-BG, Emilia in Comune, Extinction Rebellion, Fair, Fairwatch, Fridays For Future, Forum italiano dei movimenti per l’acqua, FuoriMercato, Genuino Clandestino, Green Italia, Ife Italia, Laboratorio Lavoro e Natura, Laboratorio per la riscossa del sud, Left, Libertà Donne XXI secolo, Lodi comune solidale, Medicina Democratica, Mediterranea, Mondeggi bene comune, Movimento federalista europeo, Movimento Ippocrate, Movimento nazionale Stop al Consumo di Territorio, Movimento No Tav, Movimento per la Decrescita Felice, Movimento per la Difesa della Sanità Pubblica Veneziana, Navdanya international, No Inc Pisa, Nonna Roma, No Tap, Ong Mais, Parents For Future, Punto Rosso, Rete Semi Rurali, Solidarius, Rete Italiana Economia Solidale, Rete contro le Grandi Opere inutili e dannose, Society for international development, Transform, Un Ponte per, Usb sanità, Woof Italia, Yaku.
Manifesto
Uscire dall’economia del profitto.
Costruire la società della cura.
Premessa
Un virus ha messo in crisi il mondo intero: il Covid 19 si è diffuso in brevissimo tempo in tutto il pianeta, ha indotto all’auto-reclusione metà della popolazione mondiale, ha interrotto attività produttive, commerciali, sociali e culturali, e continua a mietere vittime.
Dentro l’emergenza sanitaria e sociale tutt* abbiamo sperimentato la precarietà dell’esistenza, la fragilità e l’interdipendenza della vita umana e sociale. Abbiamo avuto prova di quali siano le attività e i lavori essenziali alla vita e alla comunità. Abbiamo avuto dimostrazione di quanto sia delicata la relazione con la natura e i differenti sistemi ecologici: non siamo i padroni del pianeta e della vita che contiene, siamo parte della vita sulla Terra e da lei dipendiamo.
Decenni di politiche di tagli, privatizzazione e aziendalizzazione della sanità, di globalizzazione guidata dal profitto, hanno trasformato un serio problema epidemiologico in una tragedia di massa, dimostrando quanto essenziale ed ampia sia invece la dimensione sociale del diritto alla salute.
La pandemia ha messo in evidenza come un sistema basato sul pensiero unico del mercato e sul profitto, su un antropocentrismo predatorio, sulla riduzione di tutto il vivente a merce non sia in grado di garantire protezione ad alcun*.
La pandemia è una prova della crisi sistemica in atto, le cui principali evidenze sono determinate dalla drammatica crisi climatica, provocata dal riscaldamento globale, e dalla gigantesca diseguaglianza sociale, che ha raggiunto livelli senza precedenti.
L’emergenza climatica è vicina al punto di rottura irreversibile degli equilibri geologici, chimici, fisici e biologici che fanno della Terra un luogo abitabile; la diseguaglianza sociale si è resa ancor più evidente durante la pandemia, mostrando la propensione del sistema economico, sanitario e culturale vigente a selezionare tra vite degne e vite di scarto.
Giustizia climatica e giustizia sociale sono due facce della stessa medaglia e richiedono in tempi estremamente brevi una radicale inversione di rotta rispetto all’attuale modello economico e ai suoi impatti sociali, ecologici e climatici.
Niente può essere più come prima, per il semplice motivo che è stato proprio il prima a causare il disastro.
Oggi più che mai, ad un sistema che tutto subordina all’economia del profitto, dobbiamo contrapporre la costruzione di una società della cura, che sia cura di sé, dell’altr*, dell’ambiente, del vivente, della casa comune e delle generazioni che verranno.
1. Conversione ecologica della società
L’emergenza climatica è drammaticamente vicina al punto di non ritorno. Il tempo a nostra disposizione si sta esaurendo: il riscaldamento climatico si aggrava, aumentano gli incendi, accelera la scomparsa dei ghiacciai, la morte delle barriere coralline, la sparizione di interi ecosistemi e di specie animali e vegetali, aumentano le inondazioni e i fenomeni meteorologici estremi.
Anche la nostra crescente vulnerabilità alle pandemie ha la sua causa profonda nella distruzione degli ecosistemi naturali, nella progressiva industrializzazione della produzione, in primo luogo di quella agroalimentare, e nella velocità degli spostamenti di capitali, merci e persone. Un modello produttivo basato sulla chimica tossica e sugli allevamenti intensivi ha provocato un verticale aumento della deforestazione e una drastica diminuzione della biodiversità. Tutto questo, sommato a una crescente urbanizzazione, all’estensione delle megalopoli e all’intensificazione dell’inquinamento, ha portato a un cambiamento repentino degli habitat di molte specie animali e vegetali, sovvertendo ecosistemi consolidati, modificandone il funzionamento e permettendo una maggiore contiguità tra le specie selvatiche e domestiche.
Una radicale inversione di rotta in tempi estremamente rapidi è assolutamente necessaria e inderogabile.
Occorre promuovere la riappropriazione sociale delle riserve ecologiche e della filiera del cibo, sottraendola all’agro-business e alla grande distribuzione, per garantire la sovranità alimentare, ovvero il diritto di tutt* ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica.
Occorre avviare una profonda conversione ecologica del sistema tecnologico e industriale, a partire dalla decisione collettiva su “che cosa, come, dove, quanto e per chi” produrre e da un approccio eco-sistemico e circolare ai cicli di lavorazione e alle filiere, dall’estrazione dei materiali alla produzione, dalla valorizzazione ai mercati, al consumo finale.
Occorre invertire la rotta nel sistema del commercio internazionale e degli investimenti finanziari, sostituendo l’inviolabilità dei diritti umani, ambientali, economici e sociali all’attuale intoccabilità dei profitti, e rendendo vincolanti tutte le norme di tutela sociale e ambientale per tutte le imprese, a partire da quelle multinazionali, anziché concedere loro di agirle solo volontariamente o come forme di filantropia.
Un nuovo paradigma energetico, con l’immediato abbandono dei combustibili fossili, deve fondarsi su energia “pulita, territoriale e democratica” invece che “termica, centralizzata e militarizzata”. Un approccio sano al territorio e alla mobilità deve porre fine al consumo di suolo e alle Grandi e meno grandi Opere inutili e dannose, per permetterci di vivere in comunità, città e sistemi insediativi che siano luoghi di vita degna, socialità e cultura, collegati tra essi in modo sostenibile.
Va profondamente ripensata la relazione di potere fra esseri umani e tutte le altre forme di vita sul pianeta: non possiamo assistere allo sterminio di molte specie animali e al brutale sfruttamento di diverse altre, pensando di restare indenni alle conseguenza epidemiologiche, climatiche, ecologiche ed etiche.
Occorre una conversione ecologica, una rivoluzione culturale, che ispiri e promuova un cambiamento economico e degli stili di vita.
2. Lavoro, reddito e welfare nella società della cura
La pandemia ha reso più evidente che nessuna produzione economica è possibile senza garantire la riproduzione biologica e sociale, come il pensiero eco-femminista e la visione cosmogonica dei popoli nativi sostengono da sempre.
La riproduzione sociale – intesa come tutte le attività e le istituzioni necessarie per garantire la vita, nella sua piena dignità – significa cura di sé, dell’altr* e dell’ambiente: ed è è attorno a questi nodi che va ripensato l’intero modello economico-sociale.
La pandemia ha fatto ancor di più sprofondare nella disperazione le fasce deboli della popolazione, dai migranti ai senza casa, dai disoccupati ai disabili, dalle persone fragili ai non autosufficienti, e ha allargato la condizione di precarietà, con altri milioni di persone che si sono trovate senza alcun reddito.
Non può esserci società della cura senza il superamento di tutte le condizioni di precarietà e una ridefinizione dei concetti di benessere sociale, lavoro, reddito e welfare.
La conversione ecologica è una lotta per abbandonare al più presto tutte le attività che fanno male alla convivenza degli umani, tra di loro e con la Terra, per promuovere altre attività che prevedono la cura di sé, dell’altr* e di tutto il vivente: la riproduzione della vita nelle condizioni migliori che si possono conseguire.
L’attività lavorativa deve basarsi su un’ampia socializzazione del lavoro necessario, accompagnata da una netta riduzione del tempo individuale a questo dedicato, affinché l’accesso al lavoro sia l’esito di una redistribuzione solidale e non di una feroce competizione fra le persone e i Paesi, dentro un orizzonte che subordini il valore di scambio al valore d’uso e organizzi la produzione in funzione dei bisogni sociali, ambientali e di genere.
Se la cura di sé, dell’altr* e dell’ambiente sono gli obiettivi del nuovo patto sociale, il reddito è il dividendo sociale della cooperazione tra le attività di ciascun*, e il diritto al reddito è il riconoscimento della centralità dell’attività di ogni individuo nella costruzione di una società che si occupa di tutt* e non esclude nessun*, eliminando la precarietà, l’esclusione e l’emarginazione dalla vita delle persone.
Va pienamente riconosciuto il diritto alla conoscenza, all’istruzione, alla cultura, all’informazione corretta, al sapere, come fattore potente di riduzione della diseguaglianza, di cui la povertà culturale è una causa chiave.
Va realizzato un nuovo sistema di welfare universale, decentrato e depatriarcalizzato, basato sul riconoscimento della comunità degli affetti e del mutualismo solidale, sull’autogoverno collettivo dei servizi e sulla cura della casa comune.
3. Riappropriazione sociale dei beni comuni e dei servizi pubblici
Nessuna protezione è possibile se non sono garantiti i diritti fondamentali alla vita e alla qualità della stessa. Riconoscere i beni comuni naturali -a partire dall’acqua, bene essenziale alla vita sul pianeta- e i beni comuni sociali, emergenti e ad uso civico come elementi fondanti della vita e della dignità della stessa, della coesione territoriale e di una società ecologicamente e socialmente orientata, richiede la sostituzione del paradigma del pareggio di bilancio finanziario con il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere.
La tutela dei beni comuni, e dei servizi pubblici che ne garantiscono l’accesso e la fruibilità, deve prevedere un’immediata sottrazione degli stessi al mercato, una loro gestione decentrata, comunitaria e partecipativa, nonché risorse adeguate e incomprimibili.
Occorre socializzare la produzione dei beni fondamentali, strategici ai fini dell’interesse generale: dai beni e servizi primari (i prodotti alimentari, l’acqua, l’energia, l’istruzione e la ricerca, la sanità, i servizi sociali, l’edilizia abitativa); a quelli senza l’uso dei quali una parte considerevole delle altre attività economiche non sarebbe possibile (i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni, la fibra ottica); alle scelte d’investimento di lungo periodo di carattere scientifico, tecnologico e culturale, in grado di modificare, nel tempo e in maniera significativa, la vita materiale e spirituale della popolazione.
4. Centralità dei territori e della democrazia di prossimità
La crescita interamente basata sulla quantità e velocità dei flussi di merci, persone e capitali, sulla centralità dei mercati globali e delle produzioni intensive e sulla conseguente iperconnessione sregolata dei sistemi finanziari, produttivi e sociali, è stata il principale vettore che ha permesso al virus di diffondersi in tutto il pianeta a velocità mai viste prima, viaggiando nei corpi di manager e tecnici specializzati, così come in quelli di lavoratori dei trasporti e della logistica, e di turisti.
Ripensare l’organizzazione della società comporta la ri-localizzazione di molte attività produttive a partire dalle comunità territoriali e dalla loro cooperazione associata, che dovranno diventare il fulcro di una nuova economia trasformativa, ecologicamente, socialmente ed eticamente fondata.
Le comunità sono i luoghi dove convivono umani, altri animali, territorio e paesaggio, ciascuna con la propria storia, cultura e identità insopprimibile. La pialla della globalizzazione ha provato a omologare differenze e peculiarità, producendo resistenze che sono state troppo spesso governate verso una versione chiusa ed escludente del comunitarismo. La sfida, anche culturale, è progettare il futuro come un sistema di comunità aperte, cooperanti, includenti e interdipendenti.
Questo comporta anche la ri-territorializzazione delle scelte politiche, con un ruolo essenziale affidato ai Comuni, alle città e alle comunità territoriali, quali luoghi di reale democrazia di prossimità i cui abitanti partecipano fattivamente alle decisioni collettive.
Attraverso forme di riappropriazione popolare delle istituzioni di livello nazionale ed internazionale si potrà garantire, tutelare ed affermare l’uguaglianza nei diritti e nelle relazioni fra le diverse aree dei sistemi paese, dei sistemi regionali e continentali e del sistema mondo.
5. Pace, cooperazione, accoglienza e solidarietà
La pandemia non ha rispettato nessuna delle molteplici separazioni geografiche e sociali e nessuna delle gerarchie costruite dagli esseri umani: dalle frontiere alle classi sociali, passando dal falso concetto di razza. Ha dimostrato che la vera sicurezza non si costruisce contro, e a scapito degli altri: per sentirsi al sicuro bisogna che tutt* lo siano.
Perché questo succeda, occorre che ad ogni popolazione venga riconosciuto il diritto ad un ambiente salubre, all’uguaglianza sociale, all’accesso preservativo alle risorse naturali.
Occorre porre termine ad ogni politica di dominio nelle relazioni fra i popoli, facendo cessare ogni politica coloniale, che si eserciti attraverso il dominio militare e la guerra, i trattati commerciali o di investimento, lo sfruttamento delle persone, del vivente e della casa comune. Non possiamo più accettare che i nostri livelli di consumi si reggano sullo sfruttamento delle risorse di altri Paesi e su rapporti di scambio scandalosamente ineguali, né l’esistenza di alleanze militari che hanno l’obiettivo del controllo e sfruttamento di aree strategiche e delle loro risorse.
La società della cura rifiuta l’estrattivismo perché aggredisce i popoli originari, espropria le risorse naturali comuni e moltiplica la devastazione ambientale. Per questo sostiene l’autodeterminazione dei popoli e delle comunità, un commercio equo e solidale, la cooperazione orizzontale e la custodia condivisa e corresponsabile dei beni comuni globali.
La guerra contro i migranti è ormai uno degli elementi fondanti del sistema globale attuale. Intere aree del pianeta – mari, deserti, aree di confine – sono diventati giganteschi cimiteri a cielo aperto, luoghi dove si compiono violenze e vessazioni atroci, e dove a milioni di esseri umani viene negato ogni diritto e ogni dignità.
La società della cura smantella fossati e muri e non costruisce fortezze. Rifiuta il dominio e riconosce la cooperazione fra i popoli. Affronta e supera il razzismo istituzionale e il colonialismo economico e culturale, attraverso i quali ancora oggi i poteri dominanti si relazionano alle persone fisiche, ai saperi culturali e alle risorse del pianeta.
La società della cura rifiuta ogni forma di fascismo, razzismo, sessismo, discriminazione e costruisce ponti fra le persone e le culture praticando accoglienza, diritti e solidarietà.
6. Scienza e tecnologia al servizio della vita e non della guerra
La ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica sono fondamentali per la costruzione di una società della cura che permetta una vita degna a tutte le persone, ma possono divenire elementi di distruzione se non sono messe al servizio della vita ma del dominio e della guerra. Indirizzi e risultati vanno ricondotti all’emancipazione delle persone e non al controllo sociale autoritario, in direzione della redistribuzione della ricchezza e non dell’accumulazione, verso la pace e la solidarietà e non in direzione della distruzione di vite, società e natura.
E’ di particolare gravità che continui la corsa al riarmo atomico e al perfezionamento dei sistemi di puntamento delle armi nucleari, mentre si allentano gli impegni internazionali per il bando al ricorso all’arma più micidiale. I saperi e le risorse di una società non possono essere indirizzati alla costruzione di armi, al mantenimento di eserciti, all’appartenenza ad alleanze basate sul dominio militare, alla partecipazione a missioni militari e a guerre, al respingimento dei migranti, alla costruzione di una realtà manipolabile e falsificabile digitalmente.
Il controllo sui Big Data, l’Intelligenza Artificiale e le infrastrutture digitali determineranno la natura delle istituzioni del futuro e le persone devono essere in grado di esercitare una sovranità digitale su tutti gli aspetti sensibili della propria esistenza. Occorre immaginare un futuro digitale democratico in cui i dati siano un’infrastruttura pubblica e un bene comune controllato dalle persone.
7. Finanza al servizio della vita e dei diritti
La pandemia ha dimostrato che per curare le persone l’Unione europea ha dovuto sospendere patto di stabilità, fiscal compact e parametri di Maastricht. Significa che questi vincoli non solo non sono necessari, ma sono contro la vita, la dignità e la cura delle persone.
La finanziarizzazione dell’economia e la mercificazione della società e della natura sono le cause della profonda diseguaglianza sociale e della drammatica devastazione ambientale.
Mettere la finanza al servizio della vita e dei diritti significa riappropriarsi della ricchezza sociale prodotta, cancellando il debito illegittimo e odioso e applicando una fiscalità fortemente progressiva, che vada a prendere le risorse laddove si trovano, nei ceti ricchi della società, nei grandi patrimoni, nei profitti delle grandi imprese.
Nessuna trasformazione ecologica e sociale sarà possibile senza fermare l’unica globalizzazione che il modello capitalistico è riuscito a realizzare compiutamente: quella dei movimenti incontrollati di merci e capitali. Un capitale privo di confini che può indirizzarsi senza vincoli dove gli conviene, determinando le scelte di politica economica e sociale degli Stati, costretti a competere tra loro, offrendo agli investitori nazionali e esteri benefici sempre più lesivi dei diritti dei propri cittadini e dell’ambiente.
Per questo bisogna socializzare il sistema bancario, trasformandolo in un servizio pubblico per risparmi, credito e investimenti, gestito territorialmente con il coinvolgimento diretto degli utenti organizzati, dei lavoratori delle banche, degli enti locali e dei settori produttivi territoriali.
Senza una nuova finanza pubblica e partecipativa, nessuna trasformazione ecologica e sociale del modello economico e produttivo sarà possibile, e le decisioni di lungo termine sulla società rimarranno appannaggio delle lobby finanziarie e delle grandi multinazionali.
Vogliamo una società che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni, sulla partecipazione le sue decisioni.
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