di Gregorio Piccin
Left – 5 Settembre 2022
All’indomani della bocciatura della nuova Costituzione cilena, abbiamo alcune domande rivolto a Calamai, ex diplomatico in America latina ai tempi delle dittature clerico-fasciste e oggi candidato al Senato per Unione popolare
Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973 e dopo due anni e mezzo un altro golpe in Argentina: il fascismo prende il potere nei due Paesi del Cono sur facendo strage di un’intera generazione di lottatori sociali. Sono solo due tasselli della più generale guerra messa in campo dalla Cia dalla fine del secondo conflitto mondiale per imporre il modello economico Usa e colpire ovunque l’affermarsi di governi popolari, socialisti o anche soltanto progressisti che quel modello rifiutano. In quel quadrante, in quegli anni, si trova ad operare il giovane diplomatico italiano Enrico Calamai.
Il vice console Calamai infischiandosene della direttiva del “quieto vivere” del governo italiano decide di “restare umano” mettendo in salvo centinaia di persone, prima in Cile poi in Argentina.
Per questa sua azione umanitaria si è guadagnato l’appellativo di “Schindler di Buenos Aires” anche se lui, con profonda umiltà, risponde che chiunque al suo posto avrebbe fatto le stesse cose…
Oggi Calamai è candidato al Senato nelle liste di Unione Popolare e da parecchi anni è impegnato nella difesa dei diritti dei migranti. È stato lui per primo a definire le vittime delle tragedie in mar Mediterraneo i “nuovi desaparecidos” e le politiche che gestiscono il fenomeno migratorio un “…sistema complesso di eliminazione che richiama il Plan Condor praticato in America Latina…”. Per provare a costruire un ponte tra due epoche e due Paesi che solo apparentemente sono lontani e all’indomani della bocciatura della nuova Costituzione cilena, abbiamo rivolto a Calamai alcune domande.
Dott. Calamai cosa pensa dell’esito del recente referendum costituzionale in Cile? Il 62% dei cileni ha rifiutato la nuova Costituzione, a detta di molti la più avanzata al mondo e non a caso nata da una sanguinosa stagione di lotte sociali contro il liberismo selvaggio introdotto proprio da Pinochet.
Il trionfo del “rechazo” (no) è per me un colpo doloroso e difficile da analizzare. In mancanza di elementi di valutazione sulla situazione attuale in Cile, posso soltanto dire che questo rifiuto ricorda l’amara novella di Pirandello, del canarino che trova lo sportello della gabbia aperto, ma preferisce non volar via. Ci leggo il permanere di un’oscura paura di un popolo che ha conosciuto le stragi su cui si è costruita la dittatura di Pinochet e che teme di scoprire il riproporsi di quell’orrore senza paragoni, come reazione a ogni tentativo di mutamento per il meglio.
Le masse neoliberiste vivono d’altronde in una paura che viene continuamente inoculata…
Esattamente. Paura del terrorismo, paura della violenza, paura del caos economico, paura di perdere il lavoro e la libertà, paura di un’invasione di migranti… L’egemonia culturale della destra neoliberista ricorre continuamente a una rappresentazione falsata e violenta della realtà, in cui a contare è soltanto l’economia, mentre la politica resta una partita inevitabilmente giocata tra pochi e tentar di cambiarla, questa realtà, è un ballare sul bordo dell’abisso.
Come si risponde a tutto questo?
È difficile da dire. Certo in Cile c’è stato un movimento travolgente che ha saputo spazzar via quanto restava del pinochetismo. Costruire il nuovo risulta essere ancora più difficile, ma una risposta la politica che ha saputo liberarsi dall’ingessamento del passato dovrà pur trovarla. Con il superamento delle divisioni a sinistra, con una più realistica percezione delle forze in campo, con tutta la mediazione che sarà necessaria, ma una soluzione comunque esiste e un popolo finisce per trovarla.
Nel corso della sua esperienza diplomatica ha conosciuto e affrontato l’omertà dei governi rispetto a palesi violazioni dei diritti umani…pensa sia cambiato qualcosa rispetto alle vicende che l’hanno vista protagonista?
Rispetto alle vicende degli anni ’70 i governi italiani avevano una maggiore preoccupazione in materia di diritti umani anche se questa preoccupazione era subordinata a trovare il modo di salvaguardare il ritorno economico e commerciale. Nascondendo quello che stava accadendo non si voleva cioè turbare l’opinione pubblica. Credo che dopo la caduta del muro di Berlino anche quest’ultimo scrupolo è stato spazzato via. Oggi non mi pare che i governi italiani e nemmeno quelli occidentali in generale abbiano una particolare sensibilità rispetto alla violazione dei diritti umani.
Siamo in campagna elettorale, il Pd di Letta punta tutto, ancora, sulla alterità rispetto alle destre. Secondo lei, in particolare sulla questione dei migranti, è possibile rintracciare questa differenza?
No, non c’è nessuna differenza. La differenza è solo di linguaggio. Minniti (ex ministro interni Pd, ndr) ha aperto ai memorandum con la Libia che sono in realtà una delega affinché i libici facciano il lavoro sporco per eliminare i migranti. Ma questa operazione non è stata sbandierata, è stata tenuta un po’ nell’ombra. Poi è arrivato Salvini che ha dato la massima pubblicità a questa azione politica diretta ad impedire gli sbarchi a qualunque costo. Poi è arrivata Lamorgese che ha continuato a fare come Minniti e Salvini ma sotto traccia, senza dichiarazioni roboanti. E’ cambiato l’abito, non la sostanza.
Madeleine Albright, democratica statunitense con importanti ruoli di governo, disse candidamente che la morte di 400mila bambini iracheni a causa delle sanzioni occidentali furono il prezzo da pagare per vincere la guerra. Il mondo occidentale sembra egemonizzato da due forme di suprematismo: uno apertamente razzista ed uno più subdolo e “politaclly correct”. La morte di migliaia di migranti nei lager libici voluti dal governo a guida Pd e poi rifinanziati da tutti i governi successivi sono il “prezzo da pagare” per vincere una guerra? Quale?
Non c’è nessuna guerra. Non c’è nessuna invasione. C’è un mondo in cui l’occidente ha un ruolo saccheggiatore, di sfruttamento, di assorbimento delle risorse specialmente energetiche ma non solo. Un ruolo dove l’occidente gestisce a volontà dittature, regimi, guerre, guerre civili…Tutto questo, unito ai cambiamenti climatici indotti dal modello produttivo dominante porta ad una conseguenza: la fuga dal proprio Paese è una necessità strutturale, la gente è costretta a migrare per sopravvivere e quindi è costretta a muoversi verso l’Europa. L’Europa neoliberista non li vuole e li elimina. Ma li elimina in modo che non si veda. Li elimina non diversamente da quanto fatto in Argentina con i desaparecidos, in modo incongruo rispetto alle alte dichiarazioni di valori democratici e di civiltà, li elimina in modo che l’opinione pubblica possa andare avanti dicendo di non sapere oppure di sapere e non sapere allo stesso tempo…Non molto diverso nemmeno da quanto succedeva nell’Europa nazi-fascista con la caccia agli ebrei.
Parliamo ancora di “prezzi da pagare”: il segretario generale della Nato Stoltemberg ha dichiarato che questo inverno l’Europa pagherà un prezzo molto duro per il sostegno all’Ucraina. Chi pagherà davvero questo prezzo? Per ottenere quali risultati? Letta cinque mesi fa diceva che le sanzioni avrebbero piegato il governo russo in pochi giorni…
Tanto per cominciare dobbiamo dire che siamo direttamente coinvolti in un teatro di guerra. Una guerra che però non riguarda il popolo italiano, una guerra voluta dalla Nato e sostanzialmente dagli Stati Uniti. L’Europa si trova in mezzo a questo confronto senza una politica lucida, razionale e consapevole: invia armi e applica le sanzioni pensando di esorcizzare i pericoli che la situazione comporta, pensando così di mantenere aperta l’emorragia che la continuazione della guerra comporta per la Russia ma che evidentemente non è sufficiente a piegarla. Hanno deciso di entrare in guerra con la Russia che è il principale fornitore di prodotti energetici. E questo evidentemente ha delle conseguenze. Il prezzo di cui parla Stoltemberg non lo pagherà lui anche se usa il “noi”, lo pagherà la maggioranza della popolazione europea trascinata in un’economia di guerra e già travolta dal caro vita e dalle speculazioni sui prezzi. Ma pagherà anche l’Europa come costruzione perché si trova a diventare marca di frontiera tra due superpotenze con gli Stati Uniti sempre più bellicosi e la Russia provocata da decenni di espansione Nato.
Cosa dovrebbe fare l’Italia per sganciarsi da questa guerra tra superpotenze il cui esito potrebbe essere una escalation nucleare fuori controllo?
Le rispondo col programma di Unione Popolare. L’Italia può e deve fare di tutto per riaprire una fase negoziale e di trattativa sulla guerra in Ucraina e più in generale sul disarmo convenzionale e nucleare. Per fare questo però è necessario proporsi con atti concreti di distensione: fermare l’invio di armi, uscire dalle sanzioni alla Russia che non sono servite a niente se non ad impoverire noi stessi, ritirare soldati e mezzi dal fianco est della Nato, liberarsi delle bombe atomiche statunitensi che teniamo sul nostro territorio nazionale. Solo con questi atti concreti l’Italia potrà prendere l’iniziativa e promuovere una conferenza internazionale di pace qui a Roma coinvolgendo tutti gli attori regionali. Ma è chiaro che se noi continuiamo ad armare il confine con la Russia non possiamo che aspettarci la stessa cosa dall’altra parte.
Dobbiamo completamente invertire la rotta?
Dobbiamo. L’Italia può e deve diventare protagonista della distensione anche con una campagna affinché l’Onu si liberi dai veti incrociati e diventi finalmente sede riconosciuta e rispettata di una sicurezza globale condivisa. Se non si agirà in questo senso, al più presto e con determinazione, l’escalation in corso potrà trasformarsi in un conflitto mondiale in grado di cancellare l’umanità dalla faccia della terra.
Gregorio Piccin
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