Dalla Bottega del Barbieri copiamo tre articoli
Il comunicato di «Baobab»
Alika Ogorchukwu è morto di indifferenza e di razzismo, non solo dell’omicida, ma soprattutto di chi era lì ad assistere, inerte.
Il video che riprende la sua lenta uccisione ci mostra una doppia violenza, quella che toglie la vita e quella dell’inazione
Ci si limita a osservare e filmare una morte tollerata, forse meritata, sicuramente normalizzata.
Quello che oggi sappiamo è che l’assassino ha prima inseguito Alika e poi lo ha buttato a terra e che lo ha fatto perché “l’ambulante chiedeva insistentemente l’elemosina”.
Quello che sappiamo è che se i passanti fossero intervenuti Alika sarebbe ancora vivo.
Ma forse Alika non ci assomiglia. Non è uno di noi. È nero, è povero. Quasi una presenza fastidiosa.
In fin dei conti quello che è successo a Civitanova Marche è la diretta trasposizione di quello che da anni accade nel Mediterraneo centrale, dove Governo dopo Governo si assiste indifferenti alla morte per affogamento e disidratazione di donne, uomini e bambini migranti.
A volte si ignorano le richieste di soccorso, altre ci si rimpalla con Malta la competenza a intervenire, altre ancora ci si limita a osservare un naufragio dall’alto di un velivolo, aspettando che gli aguzzini libici riconducano i profughi al loro giusto posto: le gabbie.
La normalizzazione della violenza, l’abitudine e l’accettazione della morte di persone che ci hanno convinti siano “altro da noi” è un precipitato politico che ha reso il razzismo un fenomeno sistemico, endemico.
Ci hanno privati dell’empatia, nel momento stesso in cui ci hanno convinti dell’inferiorità e sacrificabilità di chi presenta determinate caratteristiche somatiche. Ci hanno privati dell’aspetto più umano dell’esistenza: il senso di appartenenza a una comunità, quella di donne e uomini.
Baobab Experience di Roma
Sui testimoni ignavi di Civitanova. Quando si giustifica l’ingiustificabile
di Marinella Correggia
L’orrore di Civitanova Marche ha fatto il giro del mondo; lo hanno riferito Radio Reloje a Cuba, la Cnn come Al Jazeera, dall’Indian Express indiano a Modern Ghana, per non dire i social, immaginiamo.
Il tono è questo: “Il brutale pestaggio fino alla morte di un ambulante nigeriano da parte di un uomo italiano è avvenuto in una strada trafficata e le persone filmavano senza tentare di intervenire fisicamente”.
Questa risonanza non è legata al fatto che un africano è stato ucciso in Italia. E’ già successo infinite volte. Il crimine ha fatto il giro del mondo perché si è verificato in pieno giorno davanti a tanta gente che non è intervenuta. Eppure non occorreva essere eroi.
Perché il killer aveva solo i suoi stupidi pugni. Non aveva bombe. Non aveva pistole. Non aveva coltelli. Era evidente.
Dunque se chiunque, uomo o donna, giovane o anziano, fosse intervenuto fisicamente, con il suo corpo, in quei quattro lunghi minuti, Akila non sarebbe morto e il cittadino o la cittadina non ignavo non avrebbe rischiato quasi nulla e avrebbe salvato una vita. E di certo se uno si fosse mosso, gli altri avrebbero dato manforte. L’avanguardia del soccorso, qualche seguace lo trova. Lì vicino c’era la stampella di Akila, il folle non la usava più contro di lui, usava i pugni, lo soffocava; era lì la stampella a disposizione, per darla sul posteriore dell’assassino. Invece niente.
Una responsabilità morale enorme, sia stata oppure no condita di razzismo. Una responsabilità grossa come una casa e invece qui e là serpeggiano le giustificazioni (“la paura”, a dispetto delle circostanze, come abbiamo detto; “che avremmo fatto noi?”; “la violenza è strutturale” ecc), e gli stessi testimoni si sentono tranquilli con la propria coscienza, pare.
Perché è successo? C’entra il colore della pelle della vittima? Probabilmente sì. E questo raddoppia l’immoralità dell’ignavia.
Gli ignavi del 30 luglio, intervistati o intervenendo sui social, accampano scuse, fra l’altro contraddicendosi, ognuno intestandosi la segnalazione alla polizia, la telefonata al 113, l’appello a non picchiare più (!) o il soccorso a un uomo già morto. “Non è vero che eravamo passivi”. Oltre al fatto che le narrazioni non combaciano, nemmeno sul numero dei presenti, c’è da dire che le azioni vantate dai testimoni ignavi sono “troppo tardi e troppo poco”. Ridicole. Occorreva usare il corpo.
Sarebbe apprezzabile che qualcuno ammettesse la vergogna. Invece no.
Purtroppo la legge è dalla loro parte. L’omissione di soccorso, che a norma dell’articolo 593 del Codice penale è un grave reato, non si applica, pare, secondo alcuni avvocati consultati. L’articolo prevede sì l’obbligo di prestare assistenza a chi è ferito o in pericolo (oltre che di avvisare subito le autorità: dopo quanto tempo lo hanno fatto? Non subito, dai racconti). Ma, dicono gli avvocati sentiti in maniera informale, “un conto è prestare assistenza, un conto intervenire per far cessare un’aggressione”.
Quest’ultimo obbligo non è scritto, quindi Akila può morire. Un altro avvocato ha detto “non è reato non intervenire quando si è testimoni di violenza, Bisogna avvisare le autorità” (che non possono arrivare per tempo). Ed è rivelatrice, su una lista whatsapp “de sinistra”, la replica a questa annotazione giuridica sul non obbligo di intervenire. Scrive qualcuno (il cui nome appare solo con una sigla): “E meno male! Altrimenti, se avessimo il dovere di intervenire, sarebbe una società di sceriffi che finirebbe certamente con un doveroso diritto di possedere un’arma”.
Significa ragionare in astratto, in modo schematico, e non nella concretezza dei fatti.
Akila è morto di indifferenza e di un diritto ingessato.
Un immenso pubblico bianco ha permesso l’assassinio di Ogorchukwu
di Wissal Houbabi e Marie Moïse (*)
Il fatto che decine di persone abbiano assistito alla scena immobili senza sentirsi parte in causa è il segno di un razzismo strutturale
L’assassinio di Alika Ogorchukwu a Civitanova Marche è un incubo che diventa realtà. Il razzismo perfetto è il potere di un uomo bianco che senza alcuna remora mette brutalmente fine alla vita di un uomo Nero, con disabilità motorie, in pieno spazio pubblico. Davanti a decine di altri occhi bianchi, lo priva della possibilità di stare in piedi, appropriandosi della sua stampella, per poi colpirlo con quella e approfittare infine a mani nude del potere che il razzismo strutturale gli ha conferito. Nelle parole della geografa afroamericana Ruth Wilson Gilmore, è il potere di esporre le vite Nere a morte prematura.
Dietro alla narrazione che lo descrive in preda al famoso “raptus” della violenza omicida, si nasconde invece un piacere erotico, testosteronico: il fondamento della maschilità bianca moderna. A legittimare l’accaduto, di lì a pochi minuti, infatti, torna lo spettro secolare di epoca schiavista: il mito del Nero sessualmente violento. Non servono prove di fronte a questa accusa, fin dai tempi della legge Lynch negli Stati Uniti di fine ottocento, da cui deriva il termine linciaggio, il massacro pubblico di uomini Neri non ha bisogno di prove, basta il mito per rivendicare la legittima difesa.
Così Filippo Ferlazzo, non appena arrestato, sostiene di aver agito perché Ogorchukwu avrebbe molestato la “sua” donna.
L’assassino di Alika Ogorchukwu è un suprematista bianco, razzista e omicida ma questo non fa di lui in alcun modo una mela marcia. Nessuna persona in questo paese può raccontarsi di non avere responsabilità per l’atrocità accaduta. Le istituzioni e la società civile, tutta, hanno permesso che accadesse.
L’assassino di Ogorchukwu è il prodotto della società in cui vive, del potere che la società gli ha conferito. Civitanova Marche, amministrata da Lega e Fratelli d’Italia, si trova in provincia di Macerata, altra città guidata dalla Lega, dove Luca Traini, ex militante del partito, uscì di casa il 3 febbraio 2018 sparando contro tutte le persone Nere che incontrava e colpendone sei. Pochi chilometri più a nord, a Fermo, in provincia di Ancona, il 6 luglio 2016 veniva ucciso Emmanuel Chidi Nnamdi. L’assassino, Amedeo Mancini, che indossava una maglietta di CasaPound, lo ha colpito a morte con una spranga.
L’omicidio di Alika Ogorchukwu non ha niente di eccezionale in un paese dove sono stati commessi più di 40 omicidi a sfondo razziale negli ultimi quarant’anni, per non contare i sopravvissuti agli attentati suprematisti, ai pestaggi nelle carceri, nei Centri di permanenza per il rimpatrio (cpr) o in posti come la caserma Levante di Piacenza. O ancora i sopravvissuti allo sfruttamento disumano nelle filiere produttive, come nel caso delle persone segregate e legate nei locali dell’azienda Grafica Veneta, i braccianti schiavizzati e umiliati nelle piantagioni di pomodoro del sud d’Italia, le lavoratrici domestiche non italiane sottopagate e sottoposte a ricatti di ogni tipo.
Non fanno eccezione nemmeno le raffigurazioni razziste nei libri scolastici, i testi che celebrano le invasioni coloniali, un milione di figli e figlie di immigrati privati della cittadinanza perché non hanno puro sangue italiano nelle loro vene.
Il bianco non agisce mai da solo sul palco della società razzista
L’omicidio di Alika Ogorchukwu non ha niente di eccezionale, è normalità bianca.
E questa normalità si mostra non nella violenza di Ferlazzo, ma nelle decine di persone che assistono immobili alla scena, come spettatori di un film, tanto più se la guardano attraverso la telecamera del proprio smartphone.
Certo, quelle immagini saranno materiale fondamentale per il processo penale a carico dell’omicida, ma la possibilità di tollerare dal vivo quella scena senza sentirsi parte in causa di quello che accade è la quintessenza del dispositivo razziale. Il bianco non agisce mai da solo sul palco della società razzista. Che sia fisicamente presente, o anche solo simbolicamente vivo, è un immenso pubblico bianco che assiste a permettere al razzismo – a permettere a Ferlazzo – di agire.
Per usare le parole di Grada Kilomba in Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano (Capovolte 2021), non è un corpo a corpo tra due persone quello che è avvenuto a Civitanova Marche, ma una “costellazione triangolare” con il “consenso bianco” del pubblico che assiste: è proprio una complicità sociale – la certezza che nessuno sarebbe intervenuto – ad aver permesso a Ferlazzo di agire.
Tra chi si agisce forme di razzismo esplicito e chi dichiara di “non essere razzista (ma…)” non c’è una vera contrapposizione, perché chi non agisce, come questa vicenda tragicamente dimostra, consente di fatto al sistema razziale di perpetrarsi. Come sostiene l’attivista femminista Nera Angela Davis, non basta dichiararsi non razzisti, occorre agire attivamente contro il razzismo, disertare il privilegio della complicità passiva.
Un’angosciante puntata del 2013 della serie tv Black Mirror prefigurava quello che è successo realmente. Nella serie, una donna Nera rivive continuamente il proprio linciaggio all’interno di un distopico parco divertimenti di esecuzioni capitali, il White bear justice park, dove i visitatori possono assistere e riprendere con il cellulare il suo supplizio. Il giorno dopo l’assassinio di Alika Ogorchukwu, l’Italia intera guarda le immagini in presa diretta.
L’elemento sconvolgente di quei video non è la tragica somiglianza tra gli ultimi respiri di Alika Ogorchukwu e quelli di George Floyd, l’afroamericano ucciso da un poliziotto a Minneapolis. Ma il fatto che attorno a chi riprendeva la scena ci sono schiere di persone in cerchi concentrici che si fermano a guardare altre persone rimaste ferme a guardare.
Le persone razzializzate hanno da tempo coscienza di questo mondo da incubo, invisibile solo agli occhi di chi ha il privilegio della bianchezza.
Per ogni persona assassinata da questa società strutturalmente oppressiva, noi persone razzializzate e discendenti dal colonialismo e dalla schiavitù riviviamo un trauma, secolare e presente, mentre assumiamo l’impotenza e il peso di una tragedia.
Per ogni persona assassinata, la nostra serenità è messa nuovamente in discussione, perché Alika Ogorchukwu è nostro padre come Younes El Boussettahoui nostro fratello e Willy Monteiro Duarte il fratello che nessuno ha provato a salvare. Questo significa essere figlie, sorelle e madri di immigrati, e anche per questo, come femministe, chiediamo alle femministe nostre alleate di denunciare sempre le strumentalizzazioni del loro corpo e la violenza maschile contro le maschilità subalterne, come quelle razzializzate. Perché la matrice della violenza maschile è intrinsecamente bianca.
In nome di Alika Ogorchukwu, morto di normalità bianca il 29 luglio 2022 in Italia, invitiamo tutti i sindaci e le sindache d’Italia a dichiarare per il giorno dei suoi funerali il lutto cittadino. Con lo spirito di chi il mondo ha bisogno di cambiarlo davvero, non per moda ma per sopravvivenza.
https://www.labottegadelbarbieri.org/giustizi-per-alika-ogorchukwu/
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