Un’intervista di Nuccio Ordine al grande Maestro
Morin: “Vorrei dirlo con chiarezza … Stiamo vivendo … la crisi del pensiero»: la più grande crisi attuale è il degrado del pensiero.
Una grande riflessione emerge in questa intervista fatta al grande intellettuale: viene toccato ogni aspetto della vita, di tutti e in tutto il pianeta terra. E il filosofo, dopo aver rappresentato le tante crisi che avvolgono l’umanità, indica come ripensare l’uomo la storia il mondo la società: un pensiero nuovo che, augura, si possa concretizzare in una forza, in un movimento – non si riferisce ai partiti tradizionali – in grado di promuovere coraggio, speranza.
Un caloroso invito a leggere l’intervista dove lo stesso autore rinvia a dei suoi scritti per coloro che vogliono costruire un’altra idea di futuro
su La LETTURA del CORRIERE
Ha compiuto 101 anni l’8 luglio, è tra gli intellettuali più ascoltati, a settembre torna nelle librerie italia-ne con un pamphlet che ha il titolo di un manifesto: «Svegliamoci!».
In questa conversazione anticipa alcuni temi: il degrado della riflessione socialdemocratica, l’offensiva reazionaria, l’urgenza ambientale.
Vorrei dirlo con chiarezza: non stiamo vivendo soltanto la crisi di una sinistra in rovina, la crisi della democrazia nel mondo intero, la crisi di uno Stato sempre più burocratizzato, la crisi di una società dominata dal denaro, la crisi di un umanesimo sopraffatto da odio e violenza, la crisi di un pianeta devastato dall’onnipotenza del profitto, la crisi sanitaria scatenata dalle epidemie. Stiamo vivendo, soprattutto, una crisi più insidiosa, invisibile e radicale: la crisi del pensiero». Edgar Morin è uno degli intellettuali più importanti di questi ultimi due secoli. Il suo nuovo pamphlet, in uscita per Mimesis, è un grido d’allarme come annuncia il titolo: Svegliamoci!
A 101 anni, compiuti l’8 luglio, il filosofo francese ha raccolto le forze per invitare i lettori a risvegliare le coscienze. Si tratta di un degrado che investe diversi ambiti e che il flusso di una vita frenetica, in cui la riflessione è ormai un lusso, non ci aiuta più a percepire. Dalla politica (classi dirigenti spesso impreparate, sempre meno colte, impegnate in una campagna elettorale permanente) all’ecologia (una Terra depredata da un capitalismo rapace che si ostina a non riconoscere i fenomeni estremi e le anomalie climatiche), dall’educazione (scuole e università concepite come aziende al servizio di mercato e produzione) al mondo del lavoro (la precarizzazione si accompagna alla perdita del «diritto di avere diritti») sembra che non ci siano più «alternative», come recitava il celebre slogan di Margaret Thatcher.
E invece no. Per Morin, teorico della complessità, le alternative ci sono: bisogna pensarle e costruirle. Durante tutto lo scorso anno, in occasione dei festeggiamenti per il centesimo compleanno, lo ha ripetuto senza sosta. Il ricevimento all’Eliseo organizzato da Macron e gli omaggi in Europa e America Latina sono stati gratificanti. «Hanno celebrato — ha specificato — l’umanista che riconoscono in me. Ma purtroppo questo aspetto ha finito per occultare le mie riflessioni sulla complessità che, credo, sono il contributo più singolare e utile che ho offerto per capire il mondo in cui viviamo».
Dopo un soggiorno alle Canarie — e mentre si accinge a raggiungere sua moglie, la sociologa Sabah Abouessalam, a Marrakech — Morin parla con «la Lettura».
Il suo libro è un manifesto. L’analisi parte dalla Francia ma, di fatto, propone elementi di riflessioni più ampi. Lei ha suggerito una distinzione preliminare tra Francia umanista e Francia reazionaria. Che cosa bisogna intendere per Francia umanista?
«Gli elementi principali della Francia umanista risiedono nel costante ritorno ai principi di libertà, uguaglianza e fratellanza: diciamo i principi del 1789, della dichiarazione dei diritti dell’uomo, dell’abolizione dei privilegi. Questa è la fonte politica. Ma c’è una fonte filosofica che risale al Montaigne che ha scritto “ritengo tutti gli uomini miei compatrioti”. Al Montaigne che è stato il primo anticolonialista perché ha difeso i nativi americani, trattati come barbari. Sto parlando di una tradizione francese che da Montaigne passa per Montesquieu, Diderot, Voltaire, Rousseau, Hugo, Zola. Una tradizione radicata, durante la Terza Repubblica, in una lotta contro il potere della Chiesa, che controllava l’educazione, e contro i sentimenti filomonarchici. Questa Repubblica ha favorito la creazione di uno Stato e di una istruzione fondati sulla laicità. L’affare Dreyfus, con il coraggioso contributo di Émile Zola, è diventato un esempio dello scontro tra la Francia umanista e le forze reazionarie…».
E questo ci porta alla Francia reazionaria…
«Le campagne elettorali di quest’anno — le presidenziali e le legislative — hanno mostrato come la Francia reazionaria abbia preso il sopravvento. Il nazionalismo chiuso (ripiegato su sé stesso e dunque opposto al patriottismo), la xenofobia, i rigurgiti dell’antisemitismo, l’ostilità verso arabi e immigrati sono segnali preoccupanti. C’è anche l’ossessione della “grande sostituzione”, il timore che i francesi possano essere scalzati dagli stranieri: si tratta di un’idea che rivela una totale ignoranza della storia francese. Questo Paese s’è costruito, nel corso dei secoli, proprio sull’unità e sull’integrazione di popoli estremamente eterogenei, dotati di una loro specifica cultura (i bretoni, gli alsaziani, i fiamminghi…). La natura della Francia è, nella stesso tempo, una e molteplice. Molteplicità che i reazionari ignorano».
Perché il nazionalismo, come lei sostiene nel libro, è una forma degradata del patriottismo?
«C’è una differenza fondamentale. Il patriottismo, soprattutto quello che si è manifestato durante la Rivoluzione francese, non era nemico dei popoli con cui era in conflitto, ma si considerava il loro liberatore. Il patriottismo è un sentimento profondo, sia paterno che materno (si dice la patria ma anche la madre-patria). Il nazionalismo non presuppone per niente questo legame d’amore, si fonda sull’odio, sul rifiuto delle differenze».
L’accettazione passiva dello stato delle cose, nella cultura del nostro tempo, è forse figlia dell’incapacità di coltivare speranze e utopie?
«La Francia, come molti altri Paesi, ha considerato il progresso come una legge storica ineluttabile, fondata sull’idea che il domani sarà sempre migliore dell’oggi. Ma questa fiducia ha iniziato a incrinarsi già nel secolo scorso, dopo la tragedia di Hiroshima. E poi in seguito ad altri eventi (come lo choc ecologico, la proliferazione di regimi repressivi e regressivi, l’egemonia della finanza e del denaro) il futuro s’è rivelato sempre più incerto e inquietante. Se per una piccola minoranza privilegiata il futuro “transumanista” (che rimette in discussione la natura umana e la stessa società) rappresenta ora una prospettiva euforica, per la maggioranza degli esseri umani si profila un avvenire insicuro e angoscioso. È proprio in presenza delle grandi crisi economiche e politiche che le forze regressive diventano più potenti. In passato c’erano forze progressiste, incarnate nei diversi partiti di sinistra, in grado di coltivare la speranza nei confronti del futuro: penso alla proposta illusoria e mitologica del comunismo e al successivo degrado della socialdemocrazia. Degrado che scaturisce da un altro profondo degrado: quello del pensiero. Le riflessioni di Marx, per esempio, sull’uomo, sulla natura, sulla storia, sul mondo… erano coerenti. E questo pensiero contiene ancora elementi molto giusti».
A quali elementi, in particolare, si riferisce?
«Penso alla previsione della mondializzazione, anche se presenta oggi profonde lacune: una fede eccessiva nei confronti del determinismo storico e del progresso. La stessa idea dell’uomo-produttore ha finito per sottovalutare gli aspetti affettivi dell’essere, legati anche ai sogni e alle mitologie. Mancano, certamente, molti altri elementi essenziali che ho rielaborato nei miei libri».
Come si costruisce un’altra idea di futuro?
«In lavori come La méthode o La voie ho cercato di ripensare l’uomo, la storia, il mondo, la società. Ma si tratta di uno sforzo intellettuale che ho portato avanti da solo e con scarsa risonanza. Sarebbe importante che questo genere di pensiero nuovo, in cui interagiscono conoscenze scientifiche e filosofiche, si concretizzasse in una forza, in un movimento (e non penso ai partiti tradizionali, che hanno fatto il loro tempo!) in grado di promuovere coraggio e speranza. Ciò che manca oggi è la chiarezza di indicare una via: non un cammino tracciato in anticipo, ma un percorso che indichi almeno una direzione. Questa assenza caratterizza il degrado dei partiti di sinistra. Ma la sinistra non sono i partiti, è piuttosto uno stato dello spirito».
Qual è, tra le tante possibili, la sua idea di sinistra?
«Quella libertaria (che promuove lo sviluppo pieno e completo dell’individuo), quella socialista (che punta a riformare la società), quella comunista (che insiste sulle idee di comunità e di fratellanza) e, oggi, anche quella ecologica (che ci invita a riflettere sul rapporto con la natura). Per superare la crisi che stiamo vivendo, auspico un ritorno alle fonti e la creazione di un nuovo pensiero. Non possiamo più accettare passivamente le nuove strategie di sottomissione. Questa società repressiva, rispetto al vecchio totalitarismo, si fonda su inedite possibilità di controllo elettronico e tecnologico (riconoscimento facciale, sorveglianza quotidiana attraverso telefonini e internet) ancora più pericolose».
In questo sforzo di reinventare un pensiero, e un pensiero di sinistra in particolare, che ruolo possono giocare, per esempio, alcuni Paesi dell’America Latina che oggi vengono considerati come importanti laboratori in cui sperimentare nuove strade?
«L’America Latina è un buon esempio. Penso alla Colombia, al Cile, e forse, nel prossimo autunno, anche al Brasile. Si registrano vittorie dei candidati di sinistra, talvolta accompagnate da vere rivolte popolari come in Cile, è vero. Ma non bisogna dimenticare le condizioni in cui operano i nuovi presidenti. Il quadro economico disastroso (che può spingere a pesanti compromessi) e, in alcuni casi, le fragili coalizioni che hanno portato alla conquista del potere pongono problemi di fondo con cui bisognerà fare i conti. Io ho nutrito molte speranze, qualche anno fa, durante la quasi-rivoluzione di Rafael Correa in Ecuador: i tentativi di emanciparsi dal dollaro avevano creato la speranza della nascita di una nuova società più giusta e più equa. Ma questo esperimento, purtroppo, è durato solo qualche anno. Spero che la vittoria di Gustavo Petro, candidato che ho sostenuto con un forte messaggio durante la campagna elettorale, possa avviare un importante processo di rinnovamento in Colombia. Ci sono, senza dubbio, molti fermenti positivi in America Latina, ma bisognerà aspettare ancora per vederne i frutti. E, soprattutto, bisognerà fronteggiare la resistenza delle potenti forze reazionarie. Le stesse considerazioni valgono per le primavere arabe: movimenti meravigliosi al loro inizio contro cui, successivamente, si sono scatenate violente reazioni».
In Italia siamo in piena campagna elettorale. Il Partito democratico rivendica la cosiddetta agenda Draghi come punto fermo della proposta politica…
«Il Pd è il frutto di una serie di trasformazioni del vecchio Partito comunista in partito socialdemocratico. E vive, purtroppo, la stessa crisi della socialdemocrazia contemporanea, incapace di esprimere una nuova linea di pensiero e una nuova via. Ma soprattutto incapace di respingere l’idea neoliberista fondata sul fatto che non ci siano alternative. Senza individuare i temi centrali da affrontare, sarà difficile promuovere un nuovo corso economico e sociale».
Lei invita a concentrarsi su problemi concreti anziché agitare contrapposizioni ideologiche…
«Non si può fare politica indicando come obiettivo solo quello di respingere i partiti di destra. Bisogna proporre una concreta trasformazione progressista della società. Nel libro ho segnalato molti temi che dovrebbero essere al centro di questo programma. L’ecologia e il deterioramento del pianeta, per esempio, richiedono una sfida, sul piano generale e locale, che investe il futuro stesso della nostra civiltà. Penso all’agricoltura industriale che, per inseguire il massimo profitto, distrugge il suolo con la coltura intensiva di prodotti insalubri e insipidi: un’agricoltura che spinge a un consumo senza limiti e a un’alimentazione deteriorata. In Francia si sovvenzionano i grandi produttori e non i piccoli, mettendo in crisi le coltivazioni promosse dai contadini e la biodiversità. Lo stesso discorso vale per gli allevamenti intensivi, che provocano condizioni di vita ignobili per milioni di polli, di maiali, di bovini».
Tra i compiti della sinistra lei ha anche annoverato quello di promuovere una politica europea indipendente dagli imperialismi che dominano il mondo…
«Una sinistra rinnovata deve favorire i processi di un’autentica indipendenza dell’Europa dalle grandi potenze mondiali. Gli americani vanno considerati come alleati, non come dominatori. Mi pare evidente che la Russia è aggressiva e che Putin è un despota, erede dello zarismo e del Kgb. Ma, nello stesso tempo, è indiscutibile che attraverso il martirio dell’Ucraina si sta consumando una lotta tra due superpotenze. Questo conflitto oltrepassa Russia e Ucraina, perché potrebbe produrre un’escalation molto pericolosa, in cui non è da escludere il ricorso alle armi nucleari. Non vorrei essere frainteso: è giusto che gli ucraini difendano la loro indipendenza. Ma il legittimo aiuto all’Ucraina dovrebbe essere accompagnato da una forte pressione sulla Russia per ottenere una pace che fermi distruzioni e massacri. La tragedia è che nessuno in Europa (salvo un tentativo di Macron) lotta veramente per un accordo. Le sanzioni contro la Russia, bisogna riconoscerlo, colpiscono i sanzionati, ma anche i sanzionatori. Una diplomazia intelligente deve intervenire per costringere gli americani ad abbandonare la strategia di indebolire duramente la Russia. I compromessi, anche sul piano militare, sono sempre possibili se si creano le condizioni. Ma, in un clima dominato dall’odio reciproco e dalle reciproche campagne di criminalizzazione, è difficile intravedere accordi di pace. Il nostro dovere non dovrebbe essere quello di resistere all’isteria della guerra, denunciandola e combattendola?».
Washington ha interesse a promuovere la pace?
«Biden e i suoi collaboratori hanno utilizzato parole inquietanti: “Il nostro scopo è indebolire la Russia in modo permanente”. Se questo è l’obiettivo, tutto quello che sta avvenendo oltrepassa la questione della libertà del popolo ucraino. Bisogna dire che la politica americana degli ultimi anni in Afghanistan e in Medio Oriente — con i suoi errori: si pensi alle catastrofi provocate in Iraq e in Libia o in Siria, dove anche i russi si sono comportati ignobilmente — ha rivelato una grande incompetenza. C’è qualcosa di inadeguato nella loro politica estera: d’altronde Kissinger aveva già criticato un’America incapace di instaurare un buon dialogo con la Russia. Dopo le concessioni di Gorbaciov, gli Usa hanno favorito l’allargamento della Nato invece di trovare un accordo. La soluzione, impossibile oggi eppure ideale, sarebbe stata quella di integrare la Russia nella Nato e nell’Europa. Merita un discorso a parte la recente visita di Nancy Pelosi a Taiwan: oltre alle incursioni aeree e alle manovre navali, espressioni di una minaccia cinese più severa nei confronti dell’isola, che effetti ha provocato? Ha solo aggravato la situazione».
Ha ripetuto più volte che non si possono creare alternative senza coltivare la solidarietà umana…
«Esatto. Tempo fa ho scritto un libro chiamato Politique de civilisation, che si proponeva di lottare contro alcune parole. L’individualismo, per esempio, pur invocando giustamente la responsabilità che ognuno deve assumersi in quanto individuo, può esprimere anche un pericoloso egoismo. Stiamo assistendo al degrado della solidarietà e dobbiamo impegnarci a crearne di nuove. Nel mio saggio La voie, e in altri lavori, ho proposto la solidarietà come pieno riconoscimento dell’umanità dell’altro. Oggi ci sono troppe persone (penso agli anziani, ai giovani, alle donne) che soffrono la tragedia della solitudine. C’è una politica di solidarietà da sviluppare. C’è urgente bisogno di un enorme cantiere».
Lei, anche nel corso di questa conversazione, parla spesso dei pericoli del transumanesimo e dell’intelligenza artificiale…
«C’è una mitologia diffusa nella Silicon Valley e in numerosi circoli economici e dirigenziali: si crede che nel futuro ogni cosa sarà controllata dall’Intelligenza artificiale (IA). Ma si è poco coscienti del fatto che, se l’IA governerà qualsiasi aspetto della nostra vita, finirà per dominare noi stessi. Se non addomesticheremo l’IA, l’IA ci addomesticherà. Il transumanesimo porta a una metamorfosi antropologica nella quale l’umano diventa allo stesso tempo metaumano, sovrumano e postumano. Fondato sulle nuove possibilità di intervento biologico (cellule staminali, modifiche del Dna e dei telomeri, organi artificiali), il transumanesimo prevede il prolungamento della vita umana senza invecchiamento. Il transumanesimo, di fatto, è una mitologia delle élite ricche. Il vero problema oggi non è aumentare la potenza dell’uomo (che sta già provocando il degrado ecologico e la nostra rovina), ma rafforzare le relazioni umane. Contro il sogno del dominio, si tratta di dominare il dominio».
Per concludere, professore: come si esce dalla crisi del pensiero?
«Questo è il cuore della crisi e la crisi è nel cuore dell’umanità. Non dobbiamo più opporre l’universale alla patria. Ma legare le nostre patrie (familiari, regionali, nazionali, europee…) e integrarle con la nostra unica patria terrestre».
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