di Francesco Vignarca – da Il Manifesto
Oltre a devastare l’Ucraina, l’invasione decisa da Valdimir Putin ha ribaltato gli orizzonti di molte scelte politiche internazionali, soprattutto in Europa. È successo per le esportazioni di armi, con i Paesi dell’Unione europea che hanno deciso di ignorare norme condivise vincolanti, ma soprattutto lo si rileva sul tema delle spese militari. Un clima politico totalmente cambiato dal recente passato, in cui comunque il rialzo negli investimenti armati era in qualche modo limitato da una contrarietà nell’opinione pubblica evidenziata da diversi sondaggi. Oggi invece si cerca il consenso politico in direzione militarista.
Un consenso politico in direzione militarista che fa dichiarare con allegria al Sottosegretario alla Difesa Mulé che “non ci diciamo più che con un F-35 si costruiscono cento asili, ma che con l’F-35 ne proteggiamo migliaia”. Sempre che in futuro ci sia qualche soldo per costruirli e gestirli…
Nelle ultime settimane la Germania ha deciso di portare a 100 miliardi (praticamente raddoppiandolo) il proprio livello di spesa militare, la Francia si adeguerà e anche l’usualmente “neutrale” Svezia intende raggiungere i livelli suggeriti dalla Nato. Lo stesso è avvenuto in Italia con l’ordine del giorno votato a larga maggioranza alla Camera dei Deputati e spiegato come risposta alle richieste di Mario Draghi. Che in realtà aveva già rilasciato dichiarazioni di questo tenore dopo la conclusione della presenza in Afghanistan (situazione dimenticata, dopo solo sei mesi dal fallimento della missione militare occidentale) descrivendolo come passo verso la Difesa comune Europea, che potrà invece concretizzarsi solo dopo un reale affidamento all’Unione di competenze su politica estera. Tanto è vero che un Report diffuso in questi giorni dalla rete ENAAT dimostra che i primi fondi europei destinati alla difesa stiano solo diventando l’ennesimo sussidio all’industria militare.
Non regge nemmeno quanto dice il primo firmatario dell’OdG, il leghista Paolo Ferrari, secondo cui la spesa militare avrebbe avuto di recente una costante contrazione invertita solo dall’ultimo esercizio finanziario. I dati dell’Osservatorio Mil€x evidenziano invece una crescita costante dai 21,5 miliardi del 2019 ai 25,8 previsti per il 2022 soprattutto per l’aumento dei fondi per nuovi armamenti balzati da 4,7 a 8,2 miliardi di euro.
«È solo l’applicazione di una richiesta Nato già prevista» dicono in molti. Nemmeno questo è vero. L’indicazione di almeno il 2% del Pil in spesa militare fa capolino nel 2006 in un accordo informale dei Ministri della Difesa rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo per il 2024) in cui si indicava anche una quota per investimenti del 20%. Dichiarazioni di intenti mai ratificate dal Parlamento con forza normativa e obbligo vincolante per il Bilancio dello Stato.
L’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari e collega una spesa pubblica a un parametro soggetto a fluttuazioni comprendente produzione di ricchezza privata: è quindi aleatorio e scollegato da reali esigenze tecniche.
«In una fase come questa è inevitabile aumentare le spese per la difesa», è un’altra delle giustificazioni addotte, vedendo nella Russia una minaccia sempre maggiore cui far fronte. Difficile però che un aumento di spesa da realizzare nei prossimi anni, e con effetti ancor più trascinati nel tempo, possa incidere sulla crisi in corso in Ucraina. Soprattutto perché, considerando il volume di fondi come parametro di potenza militare e assumendo che sia correlato a efficacia nella sicurezza, la sproporzione è già oggi enorme.
Dal 2015 in poi (cioè dall’occupazione di Crimea e Donbass quando la «faccia cattiva» di Putin era già evidente, ma senza che ciò fermasse gli «affari armati» europei) la Nato in totale ha investito nei propri eserciti oltre 14 volte quanto fatto dalla Federazione Russa. Un’astronomica cifra di 5.892 miliardi di dollari contro 414 (cioè una differenza di quasi 5.500 miliardi). Anche limitandosi all’Unione europea i dati indicano che i Paesi Ue (con Regno Unito considerato solo fino al 2019) hanno avuto una spesa militare combinata di oltre 3,5 volte quella di Putin: 1.510 miliardi di dollari, quasi 1.100 in più dei russi…
Chi ritiene che per rispondere alla minaccia del Cremlino, che uscirà dal conflitto ucraino con forze armate decimate e fortemente indebolite in assetti e capacità, si debbano ulteriormente aumentare le spese militari o ha problemi di aritmetica o ritiene altamente inefficienti (magari per corruzione?) gli investimenti fatti dai Paesi occidentali. Oppure, più semplicemente, si fa trascinare da una diffusa retorica con l’elmetto (comoda, semplificatoria, politicamente vantaggiosa) orchestrata in maniera interessata da chi sta già contando le montagne di soldi in arrivo per questa decisione. Resta da capire come le casse dello Stato possano permettersi 12 miliardi in più all’anno per soldati e armi.
L’autore è coordinatore delle campagne di Rete Pace e Disarmo
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